sexta-feira, janeiro 27, 2006

Roma Tanti Nomi

I ricordi, che sembravano più sogni, avevano ancora una volta fatto perdere a Marco il punto in cui scendere dall’autobus. Un’altra volta a distrarlo era stata la pubblicità di un negozio, che esponeva in saldo articoli non venduti a Natale. Il Natale gli faceva ricordare la sua famiglia in Sudamerica. Ah, come gli mancava! Tuttavia, quelli che nel frattempo aveva conosciuto a Roma erano diventati la sua famiglia. E’ interessante come queste persone riempivano quasi totalmente la mancanza dei rapporti con i suoi. Compagni di facoltà diventano fratelli. Colleghe di lavoro sono come cugini. Capi che sembrano padri. Vicini danno consigli come nonni.

Ok. Abbiamo perso un’altra fermata. Dopotutto, forse questo sarebbe stato il millesimo lunedì che Marco avrebbe passato più negli autobus della linea 65 che in giro per appuntamenti con capi di ristoranti, uffici, bar. Se suo padre fosse stato vivo, avrebbe trovato un lavoro più facilmente? Forse non avrebbe bisogno di lavorare per pagare gli studi. Il libretto sanitario nella tasca dei pantaloni non ha una firma da molto tempo. Ah, il Signor Apicio! Quello sì che era un ottimo capo! Non si arrabbiava mai quando Marco prendeva quel po’ di ricotta che rimaneva alla fine della giornata nel ristorante. Non dimenticherà mai i suoi insegnamenti: “Figlio, devi imparare una cosa: tu devi avere una stretta di mano forte e guardare sempre le persone negli occhi quando parli perché questo è segno di sicurezza. A tutti piace la gente sicura!”.

Tutto ciò che Marco ha sempre voluto è che suo padre non morisse subito dopo la sua nascita. Ha sempre desiderato ascoltare quegli insegnamenti che i suoi amici sentivano dai propri padri. Quando pensava molto al suo padre, Marco capiva che era il momento di parlare con il Signor Armando. Da piccolo, la sua madre gli diceva sempre di non andare al bar del Signor Armando perché c’erano solo adulti e perché si parlava di cose che i bambini non potevano ascoltare. A Marco però piaceva andare lì. Non capiva quali fossero le cose da adulti e quelle da bambini. Per qualche motivo di cui non era a conoscenza, però, quando guardava quegli uomini bere birra, qualche volta grappa, e discutere, gli sembrava che litigassero per gli stessi motivi per cui litigavano i suoi amici. L’unica differenza era che i suoi amici erano bassi, non avevano la barba e non erano ubriachi. Ah, Signor Armando! Dietro al balcone stava sempre attento a quelli che provavano a uscire senza pagare. A Marco piaceva rimanere seduto nell’angolo, sopra alla scatola di Frascati. Faceva così perché sapeva che, prima o poi, la voce roca e vecchia di Armando lo chiamava: “Esci da questo angolo ragazzo! Lascia queste scatole piene di ragnatele! Vieni qua a chiacchierare con me!”

Il Signor Armando diceva sempre la stessa cosa. Però a Marco piaceva ascoltarlo. Sembrava un profeta: aveva una lunga barba bianca e i ragazzi non sapevano quanti anni avesse. Per questo dicevano che “li aveva tutti”. “Guarda figliolo, guarda tutti quelli che sono nel bar. Mi ricordo la faccia di ognuno di loro fin da quando erano bambini. Giocavano con lo yo-yo o a calcio. Oggi giocano con altre cose. Impara questo: possiamo crescere, però giochiamo sempre. La differenza è che quando cresciamo cambiano i giocattoli.”. Spesso Marco non capiva i suoi discorsi, però sperava di capire una volta cresciuto.

Un altro punto è passato e Marco non è sceso dall’autobus. Il sudore sul petto evidenzia l’alta temperatura all’una del pomeriggio nell’estate romana. Ancora una volta guarda la lista degli annunci sottolineati sul Porta Portese e si accorge di dover ancora andare a due appuntamenti. Tre posti in avanti, una signora legge un giornale e un uomo dietro di lei prova a leggere i titoli dello sport. “Com’è finita la partita Roma-Lazio?”, chiede ad uno. Come sempre, i cartelli nell’autobus sono gli stessi. Solo l’autista è, o sembra essere, nuovo in quella linea. Tutto sempre uguale.

All’improvviso tutti si avvicinano alla finestra per guardare cosa è successo all’incrocio, sull’altro lato della via. “Penso che una persona sia stata investita da una macchina!” - dice uno. “No, è un incidente. Ho visto che quello è passato con il rosso e...” - dice un altro. Nel frattempo, l’uomo che leggeva i titoli dello sport sul giornale incrocia lo sguardo di Marco, che lo vede scendere improvvisamente dall’autobus quando salgono i controllori. Mentre tutti parlano di quello che è successo nella via, è oltrepassata un’altra fermata e il ragazzo affianco a Marco prova a corteggiare la bella ragazza bionda che cerca di studiare fisica per l’esame del liceo. Riuscirà a darle un bacio? Supererà lei l’esame? Marco non saprà mai né l’uno né l’altro. Lui non è mai stato forte in fisica. Dicono che la fisica non piaccia alla maggioranza degli studenti, però è sempre piaciuta a Marco. Non era la materia in sé a piacergli, era ciò che sentiva durante le lezioni. Diverso dagli altri insegnanti della sua scuola, che insegnavano controvoglia – dicevano che era a causa dei bassi stipendi –, il Professor Fermi era molto interessante. Lui diceva agli studenti che lo studio era molto importante, che tutti dovevano cercare di fare del loro meglio, poiché lo studio è la migliore strada per vincere nella vita. Quando iniziava a parlare tutti pensavano: “Che palle!”. “Chi pensa di essere? Mio padre?”. Marco non pensava così. Per lui, il Professor Fermi era una brava persona. Gli piaceva quando diceva: “Figli, fate attenzione. Lo so che a voi non piace la fisica, però imparate ad amare lo studio perché è il migliore modo per raggiungere i vostri sogni. Se voi avete un sogno, correte nella sua direzione. Però, correte studiando”. A questo punto Marco rideva sempre. Immaginava qualcuno correre con un libro in mano. Trovava questa idea stupida, ma divertente. Pensava ai suoi sogni: voleva viaggiare, conoscere altri paesi, altre persone, voleva parlare con suo padre almeno una volta.

Le fermate passavano man mano che passava la sua vita. Il viaggio in autobus sembrava il viaggio fatto con il pensiero, pieno di curve e di cose quotidiane. Pensava che la sua vita non potesse essere un bel film. Dopotutto, le persone nei film hanno sempre una vita bella o emozionante. La sua vita no. Era troppo quotidiana. “Cosa c’è di più comune che pensare alla propria vita con la testa appoggiata sul vetro di un autobus?”. La città lì fuori scorreva molto più lentamente della città dei suoi pensieri: “Guarda... sembra il parco dove giocavo con Paolo! Vinceva sempre le partite di calcio.” I ricordi dell’amico invadevano i suoi pensieri come il vento nell’inverno romano. Subito l’immagine del padre di Paolo, sempre con la penna sull’orecchio, gli si presenta come in un film di Nanni Moretti. Era molto divertente, raccontava barzellette e faceva i calcoli per le bollette del mese. Si lamentava sempre di non avere soldi ma, quando aveva un pò di tempo, andava fino al Tevere per guardare il fiume. Diceva che lì non si sentiva il rumore della città, e così si ricordava della sua Roma di quando era piccolo. Sembrava un eroe, però all’inverso. Gli piaceva guardare Marco e Paolo mentre giocavano a pallone, perché pensava che sarebbero stati amici per tutta la vita. Forse avrebbero lavorato insieme da adulti. “Sentite figli...” – a lui piaceva dire che Marco era come um figlio per lui –, “Sentite figli, voi avete un valore molto bello e importante che dovete preservare. Il valore dell’amicizia. Gli amici sono quelli a cui possiamo dire tutto e sui quali possiamo contare; ogni tanto diventano fratelli, zii, nipoti, madri e anche padri quando ne abbiamo bisogno. Credetemi, perché so quello che dico. So di non essere così vecchio, però ho sufficiente esperienza per insegnarvi questo.”. E il padre di Paolo aveva ragione. Quelle cose che lui diceva, Marco le ha capite solo molto tempo dopo. Quando loro hanno cambiato casa, città, Marco non ha mai più visto Paolo. Però si è reso conto che non importa essere vicini. Ha imparato tantìssime cose dall’amico. Cose che porterà con se’ per tutta la vita.

Marco non è sceso neanche in questo punto. La sua testa non si ferma. Si è reso conto di non voler scendere da quell’autobus. La città dei suoi pensieri e quella giù dalla finestra erano troppo belle per premere il tasto rosso. Persone entravano, persone uscivano, ma solo Marco rimaneva lì e pensava che, se quelle persone sapevano dove volevano andare, dove salire, dove scendere, lui non lo sapeva. Si lascia guidare dal nuovo autista. Non lo conosce. Man mano lo riconosce. E’ lui stesso.

Fine di linea. Punto.

Lucas Fabbrin

terça-feira, janeiro 24, 2006

Taí ó...


Saiu o novo disco do Kevin Johansen. Se chama City Zen. Pra quem não conhece, o cara nasceu no Alaska. Filho de um americano e uma argentina. Aos 12 anos foi morar em Buenos Aires e teve uma banda de rock que não teve sucesso. Depois recomeçou a carreira.

O cara faz um som diferente, descontraído e com um pouco de humor. O novo disco – terceiro da carreira solo – não é tão bom como os dois primeiros. Mas "Desde Que Te Perdi" é uma baita música.

Vale a pena conferir.

Fiodor Allen

Não deixem de ver Match Point (ainda sem nome no Brasil) do Woody Allen. Mas, se puderem – e façam um esforço –, leiam Crime e Castigo do Dostoiévski antes de ver o filme. Vale a pena. O diretor faz mais do que uma homenagem a esse belíssimo livro. Não conto mais porque senão perde a graça. Imperdível.

Vinicius

Antes de ler, experimentem clicar no link abaixo e depois em "Francis Hime/Vinicius de Moraes / Mensagem à Poesia"

Antologia Poética

Mensagem à poesia
Vinicius de Moraes

Não posso
Não é possível
Digam-lhe que é totalmente impossível
Agora não pode ser
É impossível
Não posso.
Digam-lhe que estou tristíssimo, mas que não posso ir esta noite ao
[seu encontro.

Contem-lhe que há milhões de corpos a enterrar
Muitas cidades a reerguer, muita pobreza pelo mundo.
Contem-lhe que há uma criança chorando em alguma parte do mundo
E as mulheres estão ficando loucas, e há legiões delas carpindo
A saudade de seus homens; contem-lhe que há um vácuo
Nos olhos dos párias, e sua magreza é extrema; contem-lhe
Que a vergonha, a desonra, o suicídio rondam os lares, e é preciso
[reconquistar a vida
Façam-lhe ver que eu preciso estar alerta, voltado para todos os
[caminhos
Pronto a socorrer, a amar, a mentir, a morrer se for preciso.
Ponderem-lhe, com cuidado – não a magoem... – que se não vou
Não é porque não queira: ela sabe; é porque há um herói num cárcere
Há um lavrador que foi agredido, há uma poça de sangue numa praça.
Contem-lhe, bem em segredo, que eu devo estar prestes, que meus
Ombros não se devem curvar, que meus olhos não se devem
Deixar intimidar, que eu levo nas costas a desgraça dos homens
E não é o momento de parar agora; digam-lhe, no entanto
Que sofro muito, mas não posso mostrar meu sofrimento
Aos homens perplexos; digam-lhe que me foi dada
A terrível participação, e que possivelmente
Deverei enganar, fingir, falar com palavras alheias
Porque sei que há, longínqua, a claridade de uma aurora.
Se ela não compreender, oh procurem convencê-la
Desse invencível dever que é o meu; mas digam-lhe
Que, no fundo, tudo o que estou dando é dela, e que me
Dói ter de despojá-la assim, neste poema; que por outro lado
Não devo usá-la em seu mistério: a hora é de esclarecimento
Nem debruçar-me sobre mim quando a meu lado
Há fome e mentira; e um pranto de criança sozinha numa estrada
Junto a um cadáver de mãe: digam-lhe que há
Um náufrago no meio do oceano, um tirano no poder, um homem
Arrependido; digam-lhe que há uma casa vazia
Com um relógio batendo horas; digam-lhe que há um grande
Aumento de abismos na terra, há súplicas, há vociferações
Há fantasmas que me visitam de noite
E que me cumpre receber, contem a ela da minha certeza
No amanhã
Que sinto um sorriso no rosto invisível da noite
Vivo em tensão ante a expectativa do milagre; por isso
Peçam-lhe que tenha paciência, que não me chame agora
Com a sua voz de sombra; que não me faça sentir covarde
De ter de abandoná-la neste instante, em sua imensurável
Solidão, peçam-lhe, oh peçam-lhe que se cale
Por um momento, que não me chame
Porque não posso ir
Não posso ir
Não posso.

Mas não a traí. Em meu coração
Vive a sua imagem pertencida, e nada direi que possa
Envergonhá-la. A minha ausência
É também um sortilégio
Do seu amor por mim. Vivo do desejo de revê-Ia
Num mundo em paz. Minha paixão de homem
Resta comigo; minha solidão resta comigo; minha
Loucura resta comigo. Talvez eu deva
Morrer sem vê-Ia mais, sem sentir mais
O gosto de suas lágrimas, olhá-la correr
Livre e nua nas praias e nos céus
E nas ruas da minha insônia. Digam-lhe que é esse
O meu martírio; que às vezes
Pesa-me sobre a cabeça o tampo da eternidade e as poderosas
Forças da tragédia abastem-se sobre mim, e me impelem para a
[treva
Mas que eu devo resistir, que é preciso...
Mas que a amo com toda a pureza da minha passada adolescência
Com toda a violência das antigas horas de contemplação extática
Num amor cheio de renúncia. Oh, peçam a ela
Que me perdoe, ao seu triste e inconstante amigo
A quem foi dado se perder de amor pelo seu semelhante
A quem foi dado se perder de amor por uma pequena casa
Por um jardim de frente, por uma menininha de vermelho
A quem foi dado se perder de amor pelo direito
De todos terem uma pequena casa, um jardim de frente
E uma menininha de vermelho; e se perdendo
Ser-lhe doce perder-se...
Por isso convençam a ela, expliquem-lhe que é terrível
Peçam-lhe de joelhos que não me esqueça, que me ame
Que me espere, porque sou seu, apenas seu; mas que agora
É mais forte do que eu, não posso ir
Não é possível
Me é totalmente impossível
Não pode ser não
É impossível
Não posso.

eScala

Grades ou Degraus? As duas coisas.

À medida que andava, degraus ia subindo, portas iam se abrindo. Cada passo o fazia recordar de um ano da sua vida. Logo no início percebeu que faltariam anos para preencher os passos. Teve a idéia de pensar nos anos seguintes. Imaginava, planejava o que faria ano após ano. Sonhos lhe percorriam a alma, tomando-lhe por inteiro. “Vitória...” – pensava.

Os pensamentos lhe desviavam da escala que havia criado com o objetivo de repensar tudo o que acontecera. Havia feito isso durante tanto tempo, porque continuar? Talvez tivesse criado esse hábito, “e nossos hábitos são nós mesmos.”. Hábito, habito.

Reparou na simetria dos azulejos na parede. Invejou e ao mesmo tempo rejeitou tal organização para sua vida. Seria impossível viver de forma tão organizada. Se perderia, mesmo que não tenha ainda se encontrado. Isso nunca o tinha preocupado, ou talvez apenas na época de menino. Sabia que a vida era uma eterna corrida, separação, desencontro daquilo que não se é. Uma busca àquilo que nos circunscreve. Achou boa a metáfora, mesmo sabendo que infinitas outras seriam possíveis.

“Tchau, nos vemos por aí.”. Na verdade não queria vê-lo nunca mais. Não que sentisse raiva, mas temor, ojeriza àquilo que ele representava.

Voltou à escala ao perceber que ela acabara. Não lhe faria falta.

Bem vindo.

Lucas Fabbrin